Rita Iacomino
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VENTO DI TRAMONTANA
di Rita Iacomino

 
 
La bambina aveva otto anni, frequentava la terza elementare, l’edificio scolastico era poco distante da casa.
Tutte le mattine, il nonno l’accompagnava e andava a prenderla all’uscita.
Quando faceva molto freddo e tirava il vento gelido, lui la prendeva in braccio, la copriva con uno scialle enorme e la teneva stretta a sé.
Era bello vederli attraversare la piazzetta, dove un incrocio aperto lasciava passare un’aria freddissima.
Il nonno la stringeva nella parte alta del corpo, le gambe della piccola con la calzamaglia colorata e gli scarponcini venivano fuori dallo scialle, facendo sembrare il tutto una scenetta comica.
La stavano allevando i nonni. La bimba non aveva i genitori, ma questo non deve ingannare, nonostante tutto lei era allegra, solare e cresceva veramente bene.
Probabilmente erano gli altri attorno a lei che, restii per la sua situazione familiare, la guardavano cupamente. Lo facevano soprattutto i parenti della madre, in modo particolare la zia, che, rimasta zitella, si era inacidita pesantemente. Aveva cinquant’anni e riversava le colpe della madre, che era sua sorella, totalmente sulla bambina.
Però, come si sa, la vita va avanti e lei, con l’affetto dei nonni, cresceva  serenamente. Forse non si rendeva neanche conto di tutto questo.
Ma, a volte, accadono episodi che inevitabilmente fanno aprire gli occhi e capire più in fretta.
Era il mese di gennaio di un anno freddissimo. Il nonno doveva accompagnare sua moglie in ospedale per una visita oculistica: c’era la cataratta in agguato.
Si erano raccomandati alla zia che tenesse la bambina a pranzo e per tutto il pomeriggio, fino al loro ritorno. Naturalmente avevano avvisato la piccola che, appena usciva da scuola, doveva andare a casa della zia, che si trovava a pochi isolati.
Lei fece così, arrivò sotto casa della donna e la vide dietro ai vetri. Conoscendo il suo carattere autoritario, la guardò intimidita, sperando che le facesse un piccolo segnale per andare in casa.
Nessun cenno.
Il vento era tagliente, le scappava la pipì, aveva fame, non vedeva l’ora di riempire lo stomaco  e rimanere al calduccio fino all’arrivo dei nonni, erano le tredici e trenta.
Continuando a guardare verso la finestra, iniziò a camminare avanti e indietro, con il suo cappottino rosso e la cartella che le ciondolava fra le mani; dalla destra la passava alla sinistra e viceversa.
Il suo pensiero andava ai nonni e al tepore della sua casa dove in inverno, come d’abitudine, il camino rimaneva sempre acceso, e a volte la nonna preparava le patate sotto la cenere e le castagne arrostite.
 Hhuumm che buon profumino, aveva l’acquolina in bocca.
Le due,  le tre, le tre e mezzo, il tempo scorreva lentamente, ma non accadeva nulla.
Finalmente, verso le sedici, la zia, forse mossa a pietà, le fece cenno di salire. Lei corse per le scale già  pregustando qualcosa di caldo e fumante.
Entrò, salutò educatamente e sedette in cucina, dove la zia le aveva preparato, in un piattino da frutta, una manciata di fagioli bianchi lessati, ormai freddi e che, paragonati alla sua fame, erano veramente pochi. Oltre a questo, non c’era più niente.
La bambina sedette con la testa bassa sul piatto e mangiò.
I fagioli si mischiarono alle sue lacrime silenziose.

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